Scaglietti: “Voglio fare una vettura” – Capitolo 5

Ferrari 335 Sport

– Insomma, a dirla tutta sembra che non si sia mai riposato troppo, o sbaglio?
– Eh no, non sbaglia. Ricordo che avevamo tutti una gran voglia di dormire, ma non c’era tempo. Ai box dormivamo tra un rifornimento e l’altro, appoggiati alle gomme! Era tutto un po’ arrangiato: in pista a Molshein, bisognava cambiare una gomma scoppiata di una vettura insabbiata. E noi, via a cambiarla tirando su la macchina a mano, per farla arrivare ai box dove facevano il cambio ufficiale. In realtà da regolamento non si poteva fare, infatti, noi aspettavamo dopo la curva; i due giudici non ci vedevano perché eravamo nell’ombra. Tutte le scuderie lo facevano, c’era un movimento, lì ai box, che non le dico. Uno, da fuori, non se ne rende conto ma dentro accadeva di tutto. Sono stati anni molto belli, per carità, ma faticosissimi.

– Di piste, lei ne ha viste parecchie. La sua preferita?
– Il Nürburgring, il vecchio circuito. Il salto del Flugplatz, poi giù ancora verso Schwedenkreuz. Erano attimi che ti lasciavano senza fiato. Le macchine arrivavano, volavano nel vuoto e quando le ruote toccavano la pista erano già in curva. Era pazzesco, bastava quell’attimo per andare fuori strada. Per non parlare poi della foresta dell’Eifel con i suoi funghi… quando li trovavo li facevo cucinare in albergo e tiravamo fuori una bottiglia di lambrusco dal baule che avevamo sempre con noi. Mentre a Hokhenheim, quando le formule passavano sopra il tunnel, ed io ero sotto, sentivo come delle fucilate, erano le cambiate, “ben ben”, mi veniva la pelle d’oca! Ehhh… che sensazione! Anche la discesa del Tarzan a Zandvoort, i piloti mettevano le vetture di traverso prima di voltare… mi domando ancora “ma come facevano?”.

 

 

– Il suo pilota preferito?
– Nessuno… perché so che non mi devo affezionare, l’ho sempre saputo. Ora le racconto una cosa. C’è una fotografia di mio papà all’autodromo con il casco. Quella fotografia racconta una storia che mi ha insegnato molto. Martino Severi, il collaudatore, era sceso dalla macchina e aveva detto a mio padre: “Dai Sergio, che facciamo una foto” così si erano messi lì in posa tutti e due con il casco, mio padre con la sua sigaretta a penzoloni. Dopo lo scatto mio padre restituì il casco a Severi che ripartì… ma al secondo giro uscì di strada. Capisce? Pochi minuti prima era lì, in posa con mio padre. Se a Montecarlo non fosse successo l’incidente a Lorenzo Bandini, per me sarebbe stata la gara più bella del mondo. Ecco perché le dico che non mi devo affezionare a nessuno. È troppo grossa la botta dopo. Ogni pilota col proprio carattere ha lasciato un’impronta in Ferrari. Il taciturno, il dinamico, l’estroverso… a me piaceva molto Ricardo Rodríguez de la Vega. Era spigliato, simpatico, aveva un po’ il mio carattere. Se invece vuole che le dica un pilota che, per me, era impareggiabile: Clay Regazzoni!

 

 

– Cosa aveva Clay, di speciale?
– Non aveva peli sulla lingua. Quello che c’era da dire, lui lo diceva in faccia a chiunque, dall’Omone all’operaio. Ricordo Clay e Lauda a fare la “corsa” Maranello-Montecarlo, con nove multe che Ferrari ha dovuto pagare. Ah, ma lo sa che Clay ha portato Montezemolo da Maranello a Roma Montecitorio, in sole tre ore? Ricordo che eravamo in pista a provare e Luca dice “Clay devo essere alle 11,30 a Montecitorio, pensaci tu”. Regazzoni era in tuta, si è tolto il casco, hanno preso una Ferrari Daytona e via che son partiti… deve aver battuto tutti i record di sorpassi a sinistra e a destra, in ogni caso è arrivato puntuale!

 

 

– Del Canadese cosa ci racconta?
– Bè, Villeneuve. Enzo Ferrari e Gilles, erano l’uno il completamento dell’altro. Poteva essere suo nipote. Ferrari ha avuto un grande beneficio da Villeneuve, gli ha portato una ventata di gioventù, di allegria. Quando arrivava, il capo si trasformava, non era più l’Umóun! A tavola o in ufficio sorrideva sempre, se ne accorgevano tutti e, di proposito, gli chiedevano “Ingegnere, tutto bene? Venga a vedere che bel lavoro stiamo facendo”. E lui: “Sé sé, a vegn po’ quand an n’ho vóia”. C’è poco da dire: quando c’era Villeneuve era raggiante! A quel ragazzo ho visto fare dei numeri da funambolo. Arrivava dentro a Fiorano a scheggia con la sua Fiat, frenava, freno a mano e la macchina “saltava”, nel vero senso del termine, e parcheggiava in linea con le altre. “Ma come hai fatto?” gli chiedevo e lui “Non lo so, io tiro il freno a mano, la macchina si gira e bon”. La macchina per lui era un prolungamento del suo corpo, di un piede, di un braccio… era unico, veramente unico! Una bellissima persona… fantastico! Veniva a cena, mia moglie Franca gli cucinava la braciola di maiale cotta nel latte con un po’ di prezzemolo, contorno di patate e da bere un litro di latte. Era felice come un bambino! Mangiava così, lui. Da casa mia, nel periodo in cui ho fatto assistenza alle corse, sono passati un po’ tutti. D’altra parte era un attimo, io abitavo a Montale. I piloti giravano fino alle sette di sera e di solito andavano al ristorante da soli, il Montana o al Cavallino, così a volte ero io a dirgli “dai, venite con me”. Per me erano marziani, gente di un altro mondo.

 

 

– Perché?
– Eh perché a tavola erano simpatici, chiacchieroni, bonaccioni… poi li mettevi al volante e si trasformavano, li vedevi lì concentratissimi: non esisteva più niente, per loro.

– I piloti erano degli extraterrestri, mentre lei?
– Io sono un robot, sa? Con tutti gli interventi che ho fatto!

Mi dice con un lampo d’ironia nello sguardo. Suo padre lo chiamava Piròn, ma il nome che gli ha dato – Oscar – è lo stesso nome che lui, Sergio, si era dato molti anni prima, quando era partigiano. Un nome tratto dall’opera lirica (che Sergio amava tanto) ma di fatto, un nome di battaglia. Questo spirito, combattivo e generoso, Sergio lo ha conservato fino alla fine.

 

 

– Mio padre ha aiutato tanta gente a risolvere problemi economici, anche grossi. Era un uomo molto buono e ha sempre detto: “siate sempre modesti perché siam venuti da un periodo nero e si sa cosa costa il successo e la notorietà, ma non si sa quanto in fretta un castello di carte si sgretola. Seminate per raccogliere domani“. Era un uomo cauto, saggio e buono.

 

 

Oscar ne ha ereditato la tempra, ci ha lavorato e negli anni l’ha trasformata in spinta vitale, in capacità di guardare avanti.
E’ questo che è stata la Carrozzeria Scaglietti, un marchio che ha fatto la storia.

– Quando abbiamo venduto la nostra azienda, in Europa era indicata come quella più vivibile e col reddito pro capite maggiore: produttività massima, pulizia da 110 e lode, attrezzatura da 200 e lode. Avevamo i laser, i robot, le puntatrici automatiche… Abbiamo studiato l’azienda intorno all’uomo e l’uomo lavorava tranquillo, attento e allegro. Da noi si sentiva cantare tutto il giorno in fabbrica.

 

 

Non è difficile crederlo. L’amore con cui Oscar parla del passato è qualcosa di palpabile, che ha lo spessore e la consistenza del ricordo. Oggi, quel marchio, lo ha ereditato il figlio di Oscar, Simone, che crea profumi. Le cose cambiano d’altra parte ed è giusto che sia così ma i ricordi… eh, quelli restano. Così come rimangono le auto e quella capacità di “fare bellezza” che rende così sottile il confine tra arte e artigianato perché – come scrive Francesco Morante – “L’arte non si definisce perché produce quadri e non automobili, ma perché produce qualcosa di migliore rispetto alla media. Opera d’arte può essere un quadro così come un’automobile. In ogni settore dell’attività umana vi è un top di eccellenza i cui prodotti rappresentano un’opera d’arte”.

 

 

 

A cura di International Classic, scritto da Martina Fragale

 

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Scaglietti: “Voglio fare una vettura” – Capitolo 1
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