Il Signore dell’Autodromo di Monza – Capitolo 2

foto di Jacky Ickx

Mario Acquati: dalle corse al Book & Art Shop

Già, è vero. Stiamo parlando degli anni Sessanta, l’epoca del Boom Economico. Gli anni raccontati da Pasolini, quelli in cui la ruspa livellante della Modernità azzerava e ridisegnava il paesaggio. Una metamorfosi potente, che forse è in grado vagamente di capire solo chi – quegli anni – li ha respirati e vissuti sulla propria pelle.
– Com’era Monza, allora? Bè, a Monza io ci sono nato. Poi però, con la mia famiglia, ci siamo trasferiti a Milano. Ho iniziato a frequentare l’Autodromo nel ‘55-56. Non so come facevo ad arrivare… Avevano appena costruito la nuova sopraelevata e io ero venuto subito a curiosare. Monza era già frequentatissima. Andavamo tutti lì: quello era un appuntamento domenicale e così è rimasto per tanti anni.

 

 

Allora le gare non erano tante come oggi: la pista era libera. Avevo 16 anni e ci andavo con mio fratello, che aveva la patente…
– In che senso: c’era l’accesso libero?
– Sì, si pagavano poche lire. Firmavi un foglio di scarico di responsabilità e potevi rimanere lì mezz’ora. Autodromo a parte, però, in zona non c’era assolutamente nulla: giusto quattro costruzioni residenziali. Per questo, il nostro era un Book & Art Shop di grande passaggio. Tra l’altro, quando l’ho aperto, ho scelto apposta quello che prima era il negozio di un barbiere. Perché? Beh, perché aveva l’acqua, che negli altri negozi non c’era. Poi, una volta ottenuto il permesso, ho costruito quella che è stata la prima palazzina di hospitality in assoluto, all’esterno della pista di Monza. Era frequentatissima dai piloti e dal loro entourage, perché di fatto al suo interno c’era l’unica toilette pulita di tutto l’Autodromo.

 

 

– Chissà quanti piloti avrà conosciuto, allora! O il grosso delle conoscenze, nel campo, le ha fatte più tardi, con la libreria?
– Bè, no: molti piloti, li ho conosciuti quando ho iniziato a fare le tute…

 

 

L’arte di saper spaziare, di captare quelle che sono le esigenze di un determinato settore e di costruirci su un business, è questione di DNA: o ce l’hai o non ce l’hai. E’ questo, credo, il punto di contatto tra intuito e creatività: il sottile filo rosso che può rendere una professione qualsiasi, straordinariamente simile a una forma d’arte. Ecco, Mario Acquati, possiede esattamente questa “arma magica”. Per questo non mi stupisco quando inizia a parlarmi della stagione delle tute.
– Le tute FTP Linea Sport, sono stato io il primo a venderle. Le prove per l’omologazione le facevo personalmente, nel fuoco. Generalmente bruciavo le maniche.

 

 

– Aspetti, ma come funzionava? Era la Casa – tipo la Ferrari – che acquistava la tuta per tutto il team?
Acquati scuote il capo. Certo che no: era un altro mondo, quello!

 

 

– Allora la mentalità era molto diversa da oggi. Le faccio un esempio: noi fornivamo Villeneuve, che ci chiedeva sempre cose molto particolari. E per averle, pagava. Quando si scriveva con mia moglie, madrelingua francese, le diceva: “Io non capisco perché devo sborsare soldi di tasca mia quando ci sono delle persone che, oltre a regalarmi di tutto, mi pagano addirittura. Bè, sa cosa gli rispondeva mia moglie? “Io faccio le tute per i piloti: se le regalo, poi, a chi le vendo?” Ecco, quella è stata l’ultima volta che lo abbiamo visto per le tute.

 

 

Poi sono arrivati gli sponsor. Fino ad allora, in linea di massima funzionava così: fra i piloti, quelli meno in vista compravano le tute pagandole di tasca propria, mentre alle star – come Fittipaldi e Graham Hill – le regalavamo noi, perché ci facevano da ritorno pubblicitario.

 

 

– Prima mi parlava di omologhe…
– La Linea Sport è stata la primissima tuta omologata al mondo: aveva l’omologa della FIA e della CSAI. Quando è entrata in vigore l’omologa, nessuno aveva una tuta “in regola”. In parole povere, abbiamo letteralmente fatto strage… solo in Inghilterra, avremo venduto quattro o cinquemila tute.

 

 

– Ovviamente si sarà trattato di tute ignifughe…
– Sì, c’erano due tipi di tute. Una della Linea Sport e la Nomex. La tuta della Linea Sport si chiamava FPT (fireprooftextile): si trattava di un tessuto composto da tre fibre: una vegetale, una animale e una minerale. La minerale era un tessuto di lana di vetro. Queste tute in effetti non bruciavano mai, però se non si usavano delle sottotute di materiale isolante, uno rischiava di morire come un pollo al cartoccio… non per il fuoco, ma per il calore. Questa tuta ha dominato il settore per un anno e mezzo, poi è subentrata la Dupont con il Nomex, un tessuto ignifugo svizzero che serviva per vestire i militari… La tuta Nomex, però, non aveva passato l’omologa.

 

 

– Ma in cosa consisteva esattamente, l’omologa?
– Si trattava di resistere al fuoco per venti secondi durante i quali la parte interna del braccio, quella più sensibile al calore, non doveva presentare ustioni. Io resistevo anche venticinque, ventisei secondi… Gli Svizzeri, invece, non ce l’hanno fatta e la Nomex non ha passato l’omologa. Col tempo, poi, questo tipo di omologazione, non è più stato ritenuto valido perché si basava sul fisico di una persona. E in effetti era vero. Tant’è che quando ho fatto l’omologa di questa tuta, sono andato alla Seychelles e son stato lì un mese intero a prendere il sole per abbronzarmi, perché la pelle scura resiste al fuoco almeno due secondi in più.
– Che anni erano?
– Ho iniziato nel ’68. Nel ’70 Clay Regazzoni ha vinto a Monza con la nostra tuta.

 

 

A cura di International Classic, scritto da Martina Fragale

 

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