Ferrari e Lamborghini – Capitolo 2

Gian Carlo Guerra interview

Le Regine fra le mani di Gian Carlo Guerra

Quando Scaglietti inizia a lavorare per Enzo Ferrari, Guerra – ormai abilissimo battilastra – diventa la punta di diamante della carrozzeria.
Ferrari lo apprezza e Scaglietti lo usa spesso come scudo: con lui, le ire del Drake si placano più facilmente. Per Ferrari, Guerra è “Carlo Rizzulein” (il ricciolino): gli parla in dialetto modenese e raramente si arrabbia con lui.
– Io dovevo aspettare tutte le sere il Commendatore che veniva per vedere l’avanzamento dei lavori. Ero amico di suo figlio Dino, che veniva spesso in officina e si fermava a chiacchierare. Anche quando ha iniziato a stare male, arrivava, si sedeva vicino a me e cercavo di coinvolgerlo. Quando facevo una cosa che Ferrari non voleva, prima ne parlavo con lui. Una volta, per esempio, gli ho detto: “Dino, io ho pensato di fare una cosa che a tuo padre so benissimo non piacerà” Si trattava di un poggiatesta, una cosa che ormai avevano tutti. Tra l’altro, era morto l’ingegner Fraschetti: se avesse avuto un poggiatesta, sono convinto che se la sarebbe cavata. Insomma, ho deciso di fare di testa mia e mi sono dato da fare, aggiungendo all’auto anche degli altri cambiamenti. La reazione di Ferrari non è stata delle migliori. E’ entrato spalancando rumorosamente la porta a vetri, dicendo: “Perché l’hai fatto? Non mi piace mica!”. “L’ho fatto perché è una cosa utile. E anche bella.”, gli ho risposto. E lui: “Non è mica una buona ragione!”. Ecco, quella è stata una delle poche volte in cui abbiamo avuto da ridire.

 

 

– Prima mi stava raccontando di come ha realizzato la 250 TR e altre macchine, come la 500 Mondial: “disegnando” con il filo di acciaio. Come funzionava: lei aveva già abbozzato il disegno su carta? Lo aveva in mente?
– No, anche con la Mondial ho fatto così… ho osservato il manichino con i serbatoi, gli ingombri della parte meccanica e le sospensioni. Dopodiché ho preso il filo calibrato di 6 mm e l’ho tirato così, dal davanti al di dietro, con un ragazzo dentro che desse la misura del pilota. Poi facevo i laterali e tutto il resto. Alla fine, arrivava il turno delle lamiere.
Si trattava di avere la sensibilità di costruire e maneggiare il materiale cercando la leggerezza per competere con la concorrenza. Si lavorava a sensazione, applicando l’esperienza ricavata dall’autovettura precedente.

 

 

– Ma quindi il disegno su carta veniva fatto solo dopo che lei aveva disegnato col filo?
– No, non veniva proprio fatto.
– Neanche Scaglietti lo faceva?
– No. Il punto di partenza erano i manichini, inizialmente, di legno e poi in fusione metallica.
– Ok, niente disegno quindi. E per battere la lamiera, che strumenti usavate? Il martello e il sacco di sabbia, come da tradizione?
– Quando sono andato da Scaglietti si usavano dei mazzuoli lunghi così e dei ceppi di legno, che però erano troppo rigidi. Si faceva una buca e si batteva la lamiera così. Solo che il meccanismo non funzionava: picchiando da una parte veniva su dall’altra. Così un giorno sono andato dal tappezziere e mi sono fatto fare un sacco con la tela da camion. Poi col sacco abbiamo fatto dei cuscini molto utili. Ciascuno di noi, battilastra, adattava gli attrezzi di lavoro in base alle proprie caratteristiche: chi usava il polso aveva i martelli più corti, chi usava il gomito li aveva più lunghi.

Guerra parla piano. Ha la voce un po’ flebile e sorride spesso. Rispolvera mentalmente l’album dei ricordi e parla come se lo stesse proprio sfogliando: sorridendo alle tante istantanee di chi ha attraversato la sua vita. Ha conosciuto anche Roberto Rossellini. Ha lavorato alla Ferrari 375 che il regista scarrozzava su e giù per l’Italia, utilizzandola come se fosse una macchina normale. Ai tempi, tra l’altro, Rossellini aveva in mente di girare un film su Enzo Ferrari: un’opera, mai venuta alla luce, che fra le diverse location avrebbe dovuto anche avere lo stabilimento della Scaglietti a San Lazzaro. Guerra archivia il ricordo con un sorriso. “Era un uomo buono, Rossellini. Con lui c’era anche Ingrid Bergmann: una bellissima signora”.

 

 

Poi passa in rassegna la lunga galleria dei piloti che ha conosciuto: Musso, Phil Hill, Peter Collins, Ascari, Villoresi… tra tutti, però, il suo preferito rimane sempre Juan Manuel Fangio.
– Sì, amavo molto Fangio anche se mi faceva “tribolare” perché era esigente: voleva tante cosine che noi, di fatto, non facevamo. Per esempio: una volta ho fatto un parabrezza apposta per lui. Quando andava in montagna, l’aria che gli arrivava sul casco gli faceva venire mal di testa. Allora gli ho fatto il mirino. Sa cos’è? Un parabrezza fatto con un plexiglass rettangolare, un telaio in ferro, due uncini piccoli che avevo saldato e poi delle leve che permettevano di tirare giù il parabrezza. Quando lo ha visto, Fangio è diventato matto!

– Andava sulle piste con i piloti?
– No, sulle piste non ci andavo mai. Li conoscevo bene, però ed ero amico di tutti anche se a volte arrivavano con delle richieste… Ferrari lo diceva sempre: “i piloti non fanno le macchine, le rompono.”
– E a lei, che le macchine le faceva, piaceva anche guidarle?
– Io le macchine le guidavo poco. Non ho Ferrari d’epoca né Lamborghini.

– Ecco, a proposito di Lamborghini… lei ha cominciato a lavorare per Scaglietti quando aveva 22 anni ed è rimasto lì a lungo. Poi è iniziata la sua stagione in Lamborghini.
– Sì, le confesso che sono rimasto più affezionato alla Lamborghini, non per Ferrari che al massimo mi diceva “Fa come vuoi!”, ma per i nuovi dirigenti Fiat che comandavano, o volevano comandare. Nell’azienda del toro sono stato chiamato a fare la Countach. Mi ha contattato l’ingegner Stanzani ed è andata così: ci siamo incontrati in un’osteria vicino a Nonantola e l’ingegnere mi ha chiesto se potevo metter mano alla macchina, che a Torino era stata giudicata irrealizzabile. Era bassa, davvero bassa! Il collaudatore era Bob Wallace, che era ‘pazzo’. Mi ha detto: “Questo sedile l’ho fatto io!” E io, di rimando: “Ma questo non è un sedile: è una cuccia da cane!” Ecco, è iniziato tutto così.

 

 

– E Ferruccio Lamborghini, lo ha conosciuto?
– Certo. E’ venuto una volta che c’era uno sciopero e ha chiesto dove poteva trovare Stanzani. Prima però è passato da me chiedendo: “Chi è quell’ingegnere che mi ha fatto la Countach?”. Gli ho risposto: “Signor Ferruccio, io non sono un ingegnere però la Countach gliel’ho fatta lo stesso”… Quell’anno, alla fine, ne ho messe in cantiere 114!

Un altro progetto a cui ha partecipato il signor Guerra è la Cizeta. E cosa ci può dire dell’alettone in fibra di carbonio? “Claudio Zampolli non lo voleva perché diceva che sarebbe stata troppo azzardata e sportiva, io sostenevo, invece, che mancava qualcosa al posteriore, per poter vederlo bene”.

 

 

Di acqua sotto i ponti, ne è passata tanta da quando Guerra – poco più che bambino – sognava ancora di fare il calciatore e lavorava come garzone da Campana. Quello che ho davanti oggi, è un anziano Maestro: di quelli che hanno formato generazioni di battilastra.

Guerra ricorda Afro Gibellini ed Egidio Brandoli, i due più bravi, a detta sua.
– A volte li prendevo anche a calci nel sedere, i miei allievi… ma nessuno se l’è presa. Per me erano tutti uguali e tutti mi vogliono ancora bene.
Gli brillano gli occhi. La moglie simula un’espressione di biasimo, ma si vede che in realtà se la ride sotto i baffi. “Bella roba! Anch’io avevo delle lavoranti, ma non le ho mai prese a calci”, chiosa e si avvicina al marito. La coppia meno hollywoodiana che abbia mai incontrato, è anche una delle più belle. Tra queste quattro mura, stipate di ricordi, si respira una complicità che è raro trovare in una coppia sull’ottantina. Tanto che mi viene spontaneo chiedere a lei, Maria, come si sono conosciuti.
– Gian Carlo era un amico di mio fratello. Un giorno gli ha chiesto il permesso di portarmi a una festa ed è iniziato tutto così. Cantava anche, allora, nelle balere in cui andavamo.
–E cantava bene?
Maria alza le spalle. Gli si siede accanto tranquilla, come fa da più di sessant’anni.

 

 

Guerra sorride e mentre lo saluto, mi scorrono davanti agli occhi secoli di storia dell’arte. Ripenso alle antiche “botteghe degli artisti”, ai nomi mai emersi alle luci della ribalta: alle generazioni di “anonimi” che – di regola – non firmavano mai le opere che creavano. Un esercito di geni sconosciuti che la storia ha consegnato impietosamente all’oblio. Ma tutto questo, a Guerra non sembra importare. E’ la logica delle cose, a cui lui si arrende con indulgenza. Con una pazienza antica. E la segreta consapevolezza che molti, anche in futuro, continueranno a chiamarlo Maestro.

 

A cura di International Classic, scritto da Martina Fragale

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