Genio e spregiudicatezza – Capitolo 2

Mostra dedicata a Sergio Scaglietti al Museo dell'Automobile di Torino

Scaglietti, una pagina di storia

– Insomma, l’omologazione era una fase piuttosto lunga, giusto?

– Eh sì. Solo dopo l’omologazione si partiva con la produzione vera e propria.

– Al di là della sua funzione più immediata, che importanza aveva l’omologazione?

– Enorme. Risolvere le problematiche dell’omologazione significava fare passi di ricerca molto importanti. Andare a sbattere contro un muro con una Mondial quattro posti 8 cilindri, con tutto il peso dietro, o con una Dino, leggerissimo con un motorino piccolo, erano due cose molto diverse. Per non parlare delle cinture di sicurezza o delle masse sospese e quelle non sospese. Ogni macchina ha avuto la sua storia. Anche da questo punto di vista, in azienda c’è sempre stata la massima serietà: se cambiava la normativa a metà produzione, noi cambiavamo la configurazione della macchina.

 

 

– Certo. Immagino che in un certo senso, l’omologazione fosse già implicita nel progetto a partire dall’inizio, cioè dal prototipo.

– Sì. Quando nasceva il prototipo dovevamo sempre tenere in considerazione l’omologazione. Nella Mondial, per esempio, abbiamo iniziato a utilizzare i pistoni idraulici per assorbire gli urti. Usavamo dei respingenti simili a quelli utilizzati in ferrovia, più piccoli ovviamente. Erano prodotti dalla Vaias Auto di Torino. Fungevano da ammortizzatori e quando la vettura urtava contro il muro non si danneggiava niente, si azzeravano i rischi per il conducente che viaggiava a 50km/h. In Ferrari, producevamo macchine belle, con i musetti corti e non potevamo mettere un paraurti oltre un certo limite, per motivi estetici: non erano carini, insomma, e allora sa cosa facevamo? Ingrossavamo e taravamo i pistoni per parare i nostri 12 quintali contro il muro. L’invenzione successiva è stata la lamiera a fisarmonica, cioè l’assorbimento dell’energia cinetica dalla deformazione delle lamiere e della parte anteriore della vettura.

 

 

– Certo che il suo era un lavoro di continuo contatto con le novità, che le imponeva sempre di stare sul pezzo!

– Sì, ma la cosa non mi pesava… anzi! Ero sempre elettrizzato dalle cose nuove. Per esempio, dovevamo studiare l’impatto? E allora via, sotto a studiare! Ha presente l’omino dentro all’auto? Prima di simulare la prova con il manichino, bisognava fare gli studi e a chi toccava? Oscar! Me ne stavo seduto lì per ore e ore, con tutti gli strumenti davanti e poi tutto intento a fare i calcoli per fermare l’urto più lentamente possibile. Ci sono dei libri alti così dell’HTSA americana (Harmonized Tariff Schedule Annotated) e abbiamo dovuto metterci di buzzo buono a impararli per bene, da cima a fondo.

Quante erano le prove che una macchina doveva sostenere per ogni posizione?

– Tre: impatto frontale, laterale e “colpo di frusta”. Certo che vedere una macchina, che oggi definiamo opera d’arte, frantumarsi contro un muro, era una cosa che faceva venire la pelle d’oca! In America, con tutte le prove per le omologazioni, ci hanno fatto impazzire.

 

 

– Davvero? Mi racconti un caso estremo.

– Dovevamo ottenere l’omologazione a -40 gradi per l’avviamento delle vetture, lo sbrinamento dei vetri e, soprattutto, la resistenza meccanica dei materiali che a quella temperatura sotto zero diventano fragilissimi. In quei casi ci toccava fare le prove nelle celle frigorifere alla Weber. Sa cosa significa? Glielo spiego subito: si trattava di restare a -42 gradi, chiusi in uno scafandro, con i guantoni per 6 ore di fila. Eh no, le garantisco che quello non era per niente bello!

– C’è stata una macchina che vi ha dato qualche noia nell’omologazione?

– La Ferrari 365 GTC4 Pininfarina, il Gobbone: non riuscivamo a raffreddare gli scarichi. Abbiamo tribolato parecchio, perché avevamo sempre le temperature di scarico troppo alte. Per il resto, non ricordo situazioni particolarmente spinose. La difficoltà, era piuttosto riuscire a stare dietro a tutti i cambiamenti. Il modo di fare le omologazioni era in continua evoluzione e non solo in funzione dell’urto, ma anche la ricerca per la massima sicurezza dei passeggeri e poi l’inquinamento. Noi eravamo sempre un passo avanti rispetto agli altri. Sempre in regola con tutti i regolamenti e con tutte le omologazioni e questo non solo in Italia, ma in tutto il mondo. Ogni cosa era controllata in modo specifico perché soddisfare (e soprattutto proteggere) il cliente era fondamentale per noi. Dovevamo ottenere l’omologazione per l’Europa, gli USA, il Giappone, l’Australia… e ogni nazione era diversa dall’altra, quanto a normative. Magari di poco, ma mai identica alle altre. In Australia, come in Inghilterra, per esempio, le vetture dovevano avere la guida a destra… Inizialmente li abbiamo convinti che era più chic avere una vettura con la guida a sinistra, “Hai una macchina italiana fai vedere che ha una guida diversa, con la guida a destra ci andrà il tuo amico con la Rolls-Royce!”.

Naturale che, in anni cruciali come quelli che ha vissuto Oscar, il discorso si concentri spesso e volentieri sul tema della trasformazione e del cambiamento che allora erano all’ordine del giorno. Mi viene spontaneo, quindi, pensare all’evoluzione della Scaglietti, alle acquisizioni e agli spostamenti che hanno cucito il filo conduttore della sua storia.

– A San Lazzaro, dove c’era la Scaglietti, ora cosa c’è?

– La Ferrari, la lastro ferratura: oggi, sa, gli assemblaggi sono tutti robotizzati. Di preciso non so dirle quante vetture producano al giorno, ma so quante ne facevamo noi, dieci: 8 Dino, 2 Daytona e poi eventuali varianti fuori linea.

– Facciamo un salto indietro negli anni. Mi racconta come si è ingrandita l’attività di suo padre? Dagli inizi, intendo.

– Mio padre si era ingrandito per gradi. All’inizio, quando io facevo il garzone, e lui si era appena trasferito da via Francesco Selmi, c’era solo il primo capannone. Poi Sergio comprò la terra che confinava col cortile. Era uno dei centri di accoglienza della mondariso, dove le mondine potevano rifocillarsi e raggiungere le tenute di lavoro (molte erano nel Vercellese). Le ho viste, me le ricordo bene… è un’immagine che mi è rimasta impressa nella memoria. Le vedevo partire sui rimorchi, sembravano carri del bestiame. Poi le vedevo tornare a casa, morte dalla fatica… alla fine della stagione, con un sacco di riso, un po’ di soldi per mantenere la famiglia. Povere donne!

– E il secondo capannone?

– Il secondo capannone che mio padre ha costruito era un pochino più grande. Era diviso in reparti: in fondo c’era la verniciatura con un soppalco per i tappezzieri e gli elettricisti. In mezzo riuscivamo a far lavorare otto o nove operai.

– E il trasferimento a San Lazzaro, quando c’è stato?

– Non ricordo la data esatta, i primi anni sessanta. Ad ogni modo, è stato un trasferimento che ci è fruttato mille metri quadrati di capannone. Questo all’inizio, perché già l’anno successivo ci siamo allargati di altri mille metri. Cinque o sei anni dopo, poi, c’è stata un’altra acquisizione che ci ha portato ottocento metri di capannone in più: una palazzina abitabile e uno scivolo, bellissimo! Anche in quest’ultimo è stato costruito un soppalco per i tappezzieri e gli elettricisti, molto più spazioso rispetto al precedente. I tappezzieri erano Ermanno Luppi, nipote di Camillo (che già collaborava con noi) e suo fratello. Tra l’altro, mi pare, che sia stato proprio allora che abbiamo assunto la prima donna che ha lavorato con noi.

 

 

– Cosa faceva?

– Cuciva le pelli. Anche l’elettricista, il signor Adolfo Bertacchi, lavorava sopra, nel soppalco. Erano indipendenti e l’affitto si scontava dalle vetture lavorate. In questo modo la produzione era accorpata tutta sotto lo stesso tetto: eravamo autosufficienti e ogni passaggio era sotto controllo. Poi la Ferrari fece dapprima un prelimare, mai concretizzato, con Ford e in seguito ne fece uno con la FIAT, che invece andò in porto. Nel settanta abbiamo costituito la SPA, in modo che si potessero gestire i pacchetti azionari. La Carrozzeria Scaglietti era divisa tra Ferrari, Giovanni Agnelli, mio fratello Claudio ed io, che avevamo le quote del babbo.

– E poi?

– Poi c’è stato il passaggio definitivo dei pacchetti azionari. Quando la Fiat ha acquistato l’intero pacchetto io, sono stato assunto come funzionario, impiegato di settimo livello F.

– Insomma, un vero e proprio terremoto per voi.

– Sì, un cambiamento enorme. Dopo questo passo la Carrozzeria Scaglietti, ha perso l’idea della fabbrica dove ci conoscevamo tutti e ci davamo una mano. Con la nuova gestione di Torino, avevano notato che questo modo di operare scombussolava il programma di produzione, così hanno iniziato a separare nettamente i reparti: sono arrivati in produzione, hanno preso i migliori (quelli instancabili che lavoravano anche la notte) e hanno creato il reparto gestione sportiva. Sport e produzione di serie si allontanarono, non c’era più dialogo, due strade parallele. Il Commendatore sapeva che se vincevamo le gare sportive, vendevamo molte più macchine e proprio per questo motivo aveva creato tra divisione sportiva e produzione una forte sinergia. L’una aiutava l’altra. La Fiat invece aveva una visione diversa.

Mentre lo ascolto mi rendo conto che il suo ruolo di “tramite privilegiato” – non solo perché è il figlio di Sergio, ma anche come testimone di un’epoca – non rende giustizia a Oscar. Nel suo raccontare la girandola di cambiamenti degli anni passati, nel suo mettersi in disparte (lì, in un angolino della storia) come se fosse solo un testimone, c’è in realtà tutto un caleidoscopio di storie non raccontate, fiorite all’ombra di un colosso come Sergio. E c’è anche (anzi, soprattutto) una personalità vivace, piena di estro. Affamata di vita e di esperienze. Più lo ascolto, più mi viene voglia – per una volta – di accendere i riflettori su di lui come persona e non solo sul suo punto di vista sui fatti.

– Sentendola parlare, mi dà l’aria di una persona che ha sempre amato molto imparare cose nuove. Giusto?

– Sa, io sono un mattacchione: ho sempre avuto bisogno di crescere, di studiare qualcosa. Ad appassionarmi, non era un progetto in particolare, ma piuttosto interi periodi di ricerca.

– Avrà anche viaggiato tantissimo, immagino.

– Sì, sono stato in giro per tutto il mondo: “Costruzioni sperimentali” agli inizi, “Reparto Esperienza” ed infine ” Ferrari Engineering”. Ho iniziato con le strutture dei brancardi nel sistema tradizionale di tre lamiere assemblate assieme e sono arrivato agli estrusi già in configurazione definitiva, senza assemblaggi, in un’unica struttura che portavano tutti i rinforzi. Dalla Ferrari 250 GTO alla F1… mi vengono in mente i musetti della F1! Prima era un pezzo unico in lamiera, poi abbiamo fatto l’escalation in stretta collaborazione con le società produttrici di materiali compositi: vetroresina, pre-impregnato, tessuti a fibra continua, tessuti ibridi. Ricordo il fervore, sempre in F1, di quando abbiamo introdotto gli alettoni in polistirolo. Siamo stati fra i primi a usare i radiatori in alluminio, gli altri li avevano ancora in ottone.

– Nel corso della sua carriera si ricorda un periodo più appassionante di altri?

– Ogni periodo ha portato sempre qualche cosa di nuovo, con sé. Per esempio, ricordo il progetto tutto alluminio in Inghilterra come un momento straordinario, ho dovuto imparare bene l’utilizzo delle varie leghe di questo elemento chimico. Al progetto, hanno partecipato le aziende automobilistiche europee. Lo scopo era quello di alleggerire il più possibile le vetture per il risparmio energetico sui consumi e di conseguenza per l’inquinamento. L’Audi superò tutte le altre case e nel 1994 propose l’A8. Ecco, quella è stata proprio una di quelle esperienze che piacciono a me: quando ho qualcosa in testa, devo andare a cercare, a sviscerare. Poi certo, non era tutto rose e fiori. Quello è stato anche un periodo duro perché stavo via da casa per molto tempo.

– Quanto tempo passava fuori casa, in media?

– Andavo via anche due o tre volte al mese, per tre o quattro giorni, in Inghilterra. Per fortuna che nello stesso periodo mio figlio Matteo faceva l’Erasmus presso l’Università di Birmingham, così alla sera ci trovavamo… quando c’era l’occasione trascorrevamo insieme anche i fine settimana. Era bello, la lontananza da casa ci faceva sentire più uniti.

– E le esperienze fuori dall’Inghilterra?

– Ne ho fatte tante. Sono contento di aver avuto l’opportunità di girare il mondo e di conoscere tanta gente. Sono stato in Svezia a parlare di alluminio, in Spagna a parlare di sistemi radianti, in Germania alla Bosch a raccontare il mio mestiere.

– Come si trovava a parlare in pubblico?

– Molto a mio agio. Non ho paura di parlare in pubblico e neppure in privato, sa? Ho fatto la guerra con Enzo Ferrari (l’Omone, come lo chiamava mio padre) per aver la prima autoclave.

 

 

–… e per far la guerra con uno come Enzo Ferrari, immagino che ci volesse coraggio! Ma torniamo ai suoi viaggi. Cos’è che le piaceva tanto?

– Viaggiando entravo in contatto con altri modi di lavorare. In uno stabilimento in Inghilterra, per esempio, ho visto utilizzare le colle strutturali della Ciba, per la costruzione degli aeroplani. Non erano commercializzate in Italia, allora, (si fermavano oltre la Manica) così ho chiesto alla Ciba di istruirci sul loro impiego e, con l’ingegne Mauro Forghieri, le abbiamo impiegate per chiodare i telai delle Formula. Non sono forte con le date,  fine anni ’50 inizio anni ‘60, consentitemi l’errore. Costruivamo i primi telai a parete doppia, a sandwich: due lamiere di alluminio distanziate, nel mezzo, da tubolari rettangolari o quadrati, a seconda dell’uso. Sempre nel mezzo c’era la colla Araldite bicomponente e, per chiudere, ogni due centimetri un chiodo, proprio come un aeroplano. Questo doppio guscio diventava strutturalmente resistente e molto leggero.
Alluminio, acciaio cromo-molibdeno, acciai al nichel-cromo-molibdeno… una lega speciale per i tubi, di diverse dimensioni, che la Falck produceva solo per noi. I nostri tubi costavano molto di più, necessitavano dell’estrusore, venivano ricavati dalla lamiera senza saldature. La macchina che produceva i tubi, in Falck, l’avevamo soprannominata il “carrarmato dei rulli”! Con gli stessi tubi, di sezioni e spessori diversi, facevamo i telai, perché la Ferrari non utilizzava il ferro, ma il cromo-molibdeno. La vetroresina la sapevamo usare molto bene, ci facevamo i paraurti, i sedili e i passaruote. Abbiamo prodotto vetture complete, i primi telai della Ferrari 308, quella disegnata da Fioravanti per Pininfarina. Abbiamo lavorato dei mesi, noi come Scaglietti, con prove e campioni, per trovare la giusta formulazione.

 

 

– D’altra parte, Enzo Ferrari da questo punto di vista, amava le sperimentazioni.

– Sì, Enzo Ferrari credeva nelle novità. Non è un caso che una delle sue frasi più famose sia stata: “La macchina migliore è quella che deve esser ancora costruita”. Ricordo che voleva che si andasse da lui sempre con qualche novità. Dopo l’esperienza in Agusta abbiamo iniziato a produrre i primi pezzi in fibra di carbonio: gli abbiamo mostrato cosa potevamo fare. All’inizio era scettico, come per il motore posteriore, ma si è fidato e ci ha lasciato provare. Io mi sono appassionato ai compositi. Abbiamo cominciato con la Ferrari 308 e da lì a quando siamo arrivati a fare i super tecno polimeri, è stato un periodo tutto proiettato al futuro che mi ha dato l’opportunità di andare nei laboratori più importanti d’Europa.

– Se dovesse trovare un aggettivo per descrivere la sua esperienza lavorativa?

– Le direi che è stata “avvincente”. Se non c’era, bisognava inventare insieme all’ufficio tecnico il sistema migliore, il sistema più leggero, il sistema PIÙ in ogni cosa. È per questo che posso dirle, modestamente, che la macchina la conosco tutta!
È vero, in alcuni casi si trattava di piccole cose, ma ben fatte: la collaborazione per una barca motorizzata Ferrari; le biciclette per Colnago; alcuni laboratori spaziali e anche parti per il telescopio spaziale Hubble; le macchine per la ginnastica passiva per il lanciatore Sojuz… dalla terra al cielo, insomma, passando anche per il mare!
Sì, se dovessi tirare le somme della mia attività lavorativa, le direi che continuare a imparare, è stata la più grande opportunità che mi è stata offerta. Tutto quello che ho fatto fino ad oggi, lo rifarei uguale senza rimpianti. Magari cercando anche di migliorare. Non sono un ingegnere, non ho mai voluto darmi delle arie fingendo di essere ciò che non sono. Lo sanno tutti che ho fatto la seconda media e poi sono andato subito a martellare. Il mio punto di forza è che ho sempre cercato di aggiornarmi con dei corsi, non mi sono mai fermato. Quello che so, è tutto farina del mio sacco.

 

 

A cura di International Classic

 

Continua a seguire la storia Genio e spregiudicatezza – Capitolo 3

 

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