Mauro Forghieri – Capitolo 1

La famiglia

– Com’è vincere?
– Guardi, non vorrei sembrare uno che si dà delle arie ma la verità è che per noi, la vittoria era nella logica delle cose. Anche nel ’63, quando abbiamo vinto per la prima volta, non ci siamo esaltati più di tanto. Accettavamo le vittorie con una certa calma, perché il fatto di tagliare il traguardo – nella nostra logica – faceva parte del percorso. Lo davamo quasi per scontato. Altrimenti i sacrifici dei meccanici, dei piloti e i tecnici non avrebbero avuto senso. Se fai questo lavoro, la vittoria fa parte del tuo modo di essere: o sì o sì. In caso contrario, è impossibile pensare di fare una vita così…
– Così come?
– Così piena di sacrifici.
– E la spinta principale ad andare avanti, ve la dava la vittoria?
– La vittoria, sì. E la passione. Tanta, tanta passione.
Mauro Forghieri chiacchiera tranquillo, nella cornice settecentesca di Villa Clementina. Ha le mani fini e il volto intagliato dagli anni. La passione di cui parla, ce l’ha ancora in corpo e si vede… anche se il suo incontro con il mondo delle auto non è stato propriamente un colpo di fulmine, amore a prima vista, ma questione di Destino. O di casualità, che dir si voglia.
Da piccolo, Mauro Forghieri si divertiva a costruire galeoni – “quelli spagnoli, con le velette quadrate”, puntualizza – ma la sua passione erano gli aerei. I caccia, soprattutto: li disegnava, li costruiva, li sognava.
– Quando sono diventato responsabile del reparto corse, in Ferrari c’erano due disegnatori bravissimi della Reggiane: persone che avevano visto sul serio i Re.2000 di cui ero innamorato da piccolo.

 

 

– E poi cos’è successo: ha cambiato idea strada facendo?
Forghieri sorride. Alle sue spalle, dalle grandi finestre di Villa Clementina, si sente il rumore del vento che scuote le cime degli alberi.
– In realtà ero convinto di voler lavorare con gli aerei anche più tardi, ai tempi dell’università. Anzi, forse è allora che quella che era solo una passione infantile si è trasformata in decisione vera e propria. E’ successo durante un viaggio negli Stati Uniti, quando sono andato in visita in una fabbrica di motori per aerei, la Northrop. Davanti, c’era una lastra in marmo su cui c’era scritta una frase che mi ha colpito. Suonava più o meno così: il calabrone, stando alle teorie, non dovrebbe poter volare perché è troppo pesante e ha superfici alari troppo piccole. Ma lui non lo sa e vola lo stesso. Non so, quella frase l’ho trovata bellissima, così mi sono detto: “Voglio venire a lavorare qui!” Erano gli anni ’60 e ai tempi un trasferimento negli Stati Uniti non era la cosa più semplice e veloce del mondo, così…
– Ma insomma, con le macchine allora non c’è stato nessun colpo di fulmine pregresso? Non l’hanno mai attratta?
Forghieri rimane un po’ soprappensiero, poi annuisce.
– Le macchine… sa cosa facevo quando ero piccolo, a Milano? Mi mettevo sul balcone e le guardavo passare, cercando di riconoscerle. Quelle su cui non mi sbagliavo mai erano l’Aprilia e l’Ardea. Le riconoscevo dal posteriore.
– A Milano, diceva. Che ci faceva, a Milano?
Forghieri prende fiato. So già che quello che mi aspetta sarà un intenso racconto.

 

 

– Mio nonno era amico di Mussolini, ai tempi – però – quando Mussolini era socialista. Era anche amico di Pertini, che poi è rimasto un socialista. Quando Mussolini cambiò “fede” (diciamo così) mio nonno andò in Francia e iniziò a scrivere degli articoli per l’“Avanti”. Questo fece franare i loro rapporti, anche se l’inimicizia fu sempre contenuta. Ovvio, che tornare in Italia sarebbe stata una mossa sbagliata. Così mio nonno ha finito per mettere radici oltralpe per un bel po’ e con lui anche suo figlio Reclus: mio padre. Poi, col tempo, mio nonno è rimasto a Parigi, mentre mio padre si è spostato a Montecarlo. Era un bravissimo tecnico e così si è trovato ad essere parecchio ricercato dai clienti del posto, proprietari di auto di lusso. Io non ho ereditato molto da loro due. Durante la guerra ho vissuto qui a Villa Clementina con mia madre e i miei zii, col risultato che sono un po’ un “bastardo”. Nel senso che ho preso cose diverse da due mondi differenti.

Quella che Mauro Forghieri mi racconta, è un’infanzia itinerante. Come quella di chiunque abbia vissuto gli anni della guerra. Mettere radici, ai tempi, era un lusso che pochi potevano concedersi. Una casa era solo una tenda dove alloggiare prima di far vela verso una nuova meta. Con armi e bagagli al seguito. Napoli, Modena, Milano e Abbiategrasso: l’infanzia di Forghieri rimbalza contro i muri e gli steccati di un’Italia divisa.
– Mia madre ha provato a raggiungere mio padre a Napoli perché aveva paura che la guerra li separasse. Cosa che puntualmente è successa perché gli Americani hanno tagliato l’Italia in due e siamo dovuti tornare a Modena. Dove fra l’altro le scuole erano già iniziate. Sa com’è finita? Che sono stato “adottato” dalle dame orsoline e mi sono ritrovato in una classe di sole femmine. Mi hanno messo bene in vista in un banco separato sollevato rispetto alle altre, in fondo all’aula. E’ stato interessante stare in una scuola femminile, sa? Mi è servito per notare la differenza che correva, ai tempi, tra l’insegnamento impartito alle donne e quello destinato agli uomini. Sì, ho vissuto un’infanzia itinerante ma era normale allora. Sono stato anche a Milano – era lì che mi divertivo a cercare di riconoscere le macchine che passavano – e ad Abbiategrasso, dalla zia Elettrica… che non si chiamava così, ma viaggiava talmente tanto che la famiglia aveva finito per affibbiarle il soprannome. Poi un giorno la guerra è finita e mio padre ci ha raggiunti di nuovo, E’ venuto su da Napoli pedalando, in bici, con caricato dietro tutto quello che gli era rimasto (cioè ben poco). Quando è arrivato aveva una barba lunga così!
– Ma che ci faceva a Napoli, suo padre?
– Ai tempi lavorava per Enzo Ferrari, ma visto che era conosciuto per essere un ottimo tecnico, durante la guerra era stato militarizzato a Napoli dove lo aveva cooptato l’Ansaldo. L’arrivo degli Americani, però, aveva rimescolato le carte provocando un fuggi fuggi generale. Tra chi aveva scelto di andarsene a gambe levate c’era anche un colonnello che prima di partire aveva affidato a mio padre le chiavi del Parco Caruso, dove erano depositate tutte – ma proprio tutte – le attrezzature del Genio Italiano. Quando arrivarono gli Alleati, mio padre preferì non tenersi in tasca quelle chiavi – che scottavano come il fuoco – e decise di consegnarle ai nuovi arrivati. Personalmente non so se nei suoi panni avrei fatto la stessa scelta. Forse avrei aspettato la fine della guerra per consegnarle agli Italiani ma chissà… forse ha avuto ragione lui. A guerra finita, le cose si sono ristabilizzate. Mio padre è tornato su a Modena ed Enzo Ferrari è stato ben contento di riprenderselo.

 

A cura di International Classic, scritto da Martina Fragale

 

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